Violenza

Sono in coda per prendere un caffè al bar della stazione dei treni di Modena. Davanti a me c’è una signora, italianissima, che vedo fin da subito agitata. La fila non va avanti e forse c’è un treno da prendere. (Non tutti, in effetti, possono avere il lusso di attendere il treno successivo. È una di quelle cose che viene riservata a stati speciali dell’anima e a momenti particolari della vita. Per me oggi sarebbe stato un problema sbagliare treno. Forse anche per la signora davanti a me. Ma sto divagando).

Comunque sia: la coda non finisce. Davanti alla signora c’è una ragazza giapponese (ma poteva essere cinese). Diciamo: straniera. La commessa le chiede:

  • Come la vuole la brioche?
  • Sorry, what kind of croissant?
  • Which tastes are there?
  • Apricote, strawberry,…

In questo istante, quello in cui la commessa spiega le alternative della colazione, la signora italiana davanti a me esclama con disprezzo:

  • Ma gliene dia una a caso!

Ecco, lì mi è passata per la testa una sola parola: violenza. Quello che ho visto è stato un atto di violenza totale. Non so come altro definirla. Una nausea.

Non stiamo parlando di barconi pieni zeppi di persone e neppure di extra-comunitari che ci rubano il lavoro. Siamo davanti ad una gentilezza (questi sono i gusti di brioche che ci sono oggi) cancellata da una violenza (le dia qualsiasi cosa!) in un gesto quotidiano semplicissimo: il sorriso di iniziare una nuova giornata con la colazione.

Ed erano le 7.10 di mattina. Non meravigliamoci se alle otto di sera siamo pronti a sparare al mondo intero.

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